Si trasmette il testo integrale della lettera aperta pubblicata lo scorso 20 luglio 2020 dal Consiglio Direttivo dell’Associazione Italiana di Studi Bizantini sulla decisione della Repubblica di Turchia di riconvertire in moschea il museo di Santa Sofia.
La recente decisione della Repubblica di Turchia di riconvertire in moschea il museo di Santa Sofia rappresenta un momento grave della storia contemporanea, e tutti dovremmo esserne consapevoli.
Quando Santa Sofia, il tempio dedicato alla Sapienza Divina, fu consacrata nel 537 dall’imperatore Giustiniano, si ergeva come il più grande edificio di culto della cristianità, e la più imponente costruzione che l’ingegno umano avesse saputo innalzare a Dio. La basilica divenne subito il centro della vita religiosa e politica dell’Impero: sede del patriarcato, in Santa Sofia si svolgevano tutte le più solenni cerimonie della vita pubblica bizantina. Nel IX secolo, dopo la fine della controversia iconoclastica, le sue pareti interne cominciarono ad essere arricchite di pannelli musivi figurativi nei quali all’abilità artistica dei raffinati artigiani costantinopolitani era affidato il compito di esaltare, con la propria arte, le immagini sacre e la sovranità imperiale. In Santa Sofia, sotto la sua cupola sospesa al cielo, erano incoronati gli imperatori, in Santa Sofia prese avvio nel 1054, con la deposizione sull’altare della scomunica del patriarca Cerulario da parte del delegato del papa, il grande scisma tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente, in Santa Sofia lo splendore della liturgia ortodossa indusse alla conversione il popolo russo, in Santa Sofia, il mattino del 29 maggio del 1453, si raccolse, per l’ultima disperata preghiera, la popolazione atterrita, in Santa Sofia entrò trionfalmente Maometto II per prendere possesso dell’intera città, di cui la basilica era il cuore. Il Conquistatore rimase stupito dallo splendore dell’edificio, tanto che, narrano le fonti, colpì un soldato accecato dal fanatismo che si accaniva contro il pavimento marmoreo frantumandolo. Col 1453 comincia per Santa Sofia una nuova storia: la chiesa, come quasi tutte le chiese presenti a Costantinopoli, fu trasformata in moschea, esercitando un fascino irresistibile con l’ardimento della sua struttura su tutti gli architetti successivi, dal grande Sinan che curò la costruzione della moschea di Solimano al suo allievo Sedefkar Mehmed Ağa, cui si deve invece l’erezione della splendida ‘Moschea blu’. La basilica era stato il centro cultuale dell’impero bizantino, e continuò a mantenere questo ruolo prestigioso durante tutto l’Impero ottomano, i cui sultani mostrarono sempre attenzione per l’edificio che aveva sfidato i secoli e che riservò alla metà dell’800 ad Abdülmecid I la sorpresa della scoperta dei mosaici riportati alla luce dai fratelli ticinesi Fossati durante gli interventi di restauro di cui furono incaricati dal sultano. Nel 1934 Kemal Atatürk, consapevole del ruolo simbolico che Santa Sofia poteva esercitare in una Turchia modernizzata e proiettata verso il futuro, decise di rendere l’edificio patrimonio di tutta l’umanità trasformandolo in un museo e creando
con ciò le condizioni per il recupero del suo ricco apparato iconografico, con la preservazione di tutti gli elementi, cristiani e islamici, che la storia aveva depositato al suo interno.
Nel 1985 L’UNESCO ha designato quattro aree storiche della città di Istanbul come Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Il Valore Universale Eccezionale risiede «nella integrazione unica di capolavori architettonici che riflettono l’incontro tra Europa ed Asia nel corso dei secoli». Santa Sofia è stata riconosciuta dall’UNESCO come un capolavoro architettonico unico, «un modello per una intera famiglia di chiese e successivamente di moschee». Al fine di stabilire una adeguata gestione dei siti UNESCO, sin dal 2002 con la ‘Dichiarazione di Budapest’, sottoscritta anche dalla Turchia, sono state fornite specifiche direttive per un giusto equilibrio tra conservazione, sostenibilità e sviluppo e per meglio tutelare il bene universale.
La ‘Dichiarazione di Budapest’ ha richiesto quindi un Piano di Gestione per assicurare una efficace protezione del bene e garantirne la trasmissione in tutti i suoi aspetti e valori alle future generazioni. Il Piano di Gestione per Santa Sofia all’interno del ‘Parco Archeologico di Sultanahmet’ redatto nel 2010 non prevedeva alcun cambiamento del suo status, nel rispetto di quell’equilibrio dei monumenti inseriti all’interno del Parco.
Santa Sofia è stata e continua ad essere ancora oggi il fulcro di numerosi studi sulla civiltà bizantina, perché è la testimonianza ‘vivente’ degli eccezionali rinnovamenti architettonici e delle più raffinate espressioni artistiche prodotte a partire dal VI secolo e giunte fino a noi, in gran parte integre e immutate nei secoli. Gli innumerevoli e rilevanti contributi scientifici dedicati al monumento sono il segno della molteplicità di interessi che esso ha suscitato e continua a ispirare. Le ricerche si sono concentrate non solo sugli aspetti più appariscenti dell’edificio – l’architettura e il ricco, quanto unico, apparato decorativo e iconografico –, ma si sono rivolte anche al recupero di tracce meno evidenti nel grande complesso: le numerose sigle delle botteghe di lapicidi attive nel monumentale cantiere; i graffiti apposti suoi marmi da pellegrini, viaggiatori e ambasciatori nel corso dei secoli; la stratificazione temporale e le più varie soluzioni che hanno portato alla conservazione in alzato di un’enorme struttura composita e proteiforme. Ma Santa Sofia è anche un luogo in cui è possibile investigare aspetti meno noti come i complessi giochi di luce così ben descritti dalle fonti antiche, come il suono e la sua propagazione in uno spazio architettonico coperto dall’immensa cupola e dalle quattro semicupole, e dove la lettura simbolica degli apparati liturgici e ornamentali rivela le profondità semantiche dell’edificio. La conoscenza e la comprensione di dati materiali e immateriali dell’edificio – con importanti ricadute nell’ambito degli studi religiosi, sociologici, teologici, filosofici, liturgici, economici – sono parte di una cultura che potremmo oggi dire ‘sovrastorica’ e ‘sovranazionale’, che ci rivela il ruolo dell’uomo e delle società, che abbiamo imparato a conoscere attraverso l’indagine del passato. Purtroppo, alcuni precedenti ci pongono davanti gli occhi le conseguenze della riconversione in moschea di uno spazio museale già luogo di culto cristiano. Nel 2013, a seguito della decisione delle autorità locali, la proprietà della Santa Sofia di Trebisonda viene trasferita al Direttorato Generale per le Opere Religiose con la conseguente apertura al culto islamico. Si procede così ad una lenta, quanto sistematica, operazione di occultamento del passato bizantino: dalla copertura delle pavimentazioni marmoree, a quella degli affreschi con la sovrapposizione di tessuti, alla obliterazione visiva dell’abside della chiesa sino alla rimozione di tutto il patrimonio scultoreo del complesso raccolto negli spazi antistanti il monumento. Trebisonda è l’espressione ‘prototipica’ delle trasformazioni legalizzate, cui seguono la Santa Sofia nella città di Vize nella Tracia turca, la ben nota Santa Sofia nella città di Iznik in Bitinia e nel 2020 la Santa Sofia di Enez, a ridosso del confine greco, sede di scavi archeologici.
L’Italia è tra i paesi più sensibili ai mutamenti in atto a Santa Sofia, per i suoi stretti legami con l’Oriente bizantino; la storia di Bisanzio si è saldata con la sua storia, tanto che, fuori da Costantinopoli, si ritrovano sul territorio italiano alcune tra le più cospicue testimonianze artistiche bizantine, come i celebri mosaici ravennati con i ritratti di Giustiniani e Teodora, contemporanei di Santa Sofia. Proprio Giustiniano riportò la penisola entro i confini dell’Impero e l’Italia meridionale rimase tenacemente inserita per secoli all’interno dell’universo bizantino, serbando, accanto alle testimonianze artistiche, le tracce della lingua greca, parlata ancora oggi in comunità calabresi e salentine. Per questo la cultura italiana ha sempre mostrato grande interesse per Bisanzio, come è dimostrato dalla intensa attività degli insegnamenti universitari di storia, civiltà, storia dell’arte ed archeologia bizantina presenti in molti dei nostri Atenei e con la pubblicazione di numerose riviste che, collocate nella fascia più alta della valutazione qualitativa, sono dedicate specificamente alle tematiche relative al medioevo greco. I bizantinisti italiani godono di autorevolezza internazionale e la loro attività di ricerca pone il nostro paese tra i più importanti promotori degli studi nel campo della civiltà di Bisanzio. Accanto alla comunità accademica, in Italia si è costituita l’Associazione Italiana di Studi Bizantini che vanta più di 170 soci e che fa parte, con analoghe associazioni nazionali, del più ampio organismo della Association Internationale des Études Byzantines – AIEB. È naturale che a fronte di questi forti e radicati interessi culturali si siano manifestati grande sconcerto e indignazione nella nostra comunità scientifica, costernata dinanzi alla determinazione del presidente Erdoğan, avallata dal Consiglio di Stato, di privare Santa Sofia delle sue funzioni museali, consolidate da lunghi decenni nei quali anche i ricercatori italiani
hanno contribuito all’indagine archeologica, storica e artistica sul monumento. Sottraendo Santa Sofia al campo neutro della fruizione come monumento architettonico e artistico, e ripristinandovi il culto religioso islamico, le condizioni interne dell’edificio ‒ oltre a quelle esterne, dove si raccolgono reperti della Santa Sofia del tempo di Teodosio II ‒ verranno a subire una radicale alterazione, con la copertura di tutto l’apparato decorativo e della superba pavimentazione marmorea, con grave pregiudizio della prospettiva estetica con cui il visitatore deve guardare al complesso dell’edificio.
Santa Sofia non è solo un monumento, è una fonte ricchissima e inesauribile di sapere storico, un documento aperto all’indagine e destinato, con la riconversione in un luogo di culto, e con le conseguenti inevitabili alterazioni, a richiudersi e farsi muto. In poco meno di un secolo dalla sua musealizzazione non ha ancora esaurito di raccontare le vicende che l’hanno resa protagonista. Proprio come un antico libro, la sua integrità andrebbe preservata con la massima cura: una integrità che lo statuto museale ha sicuramente contribuito a garantire, anche grazie agli interventi, agli sforzi e alla collaborazione tra autorità locali e numerosi Atenei e Istituzioni italiane e internazionali, impegnate con progetti di ricerca e con delicate campagne di restauro. Grazie a illuminate scelte di politica culturale e alla collaborazione e circolazione di saperi e conoscenze scientifiche è stato possibile mettere in campo forze comuni per una ‘causa comune’: preservare all’umanità un bene prezioso.
Non si può che rimanere angosciati dal nefando segnale di intolleranza e chiusura ideologica che il presidente Erdoğan dà alla comunità internazionale. L’amarezza più intensa che si prova davanti a questa decisione è l’ostentata volontà, da parte della suprema autorità turca, di esaltare con questo gesto di ‘ri-conquista’ la violenza che è alla radice della storia moderna dell’edificio. Santa Sofia era diventata un simbolo dello sforzo dell’umanità di superare la storia e di non rimanerne vittima.
Chiediamo con fermezza, non solo come studiosi, ma anche e soprattutto come membri della società umana, di prendere posizione e mettere in atto tutto quanto è possibile perché non si perpetri quella che appare come una prevaricazione verso tutti i popoli del mondo e un’offesa alla loro speranza di conciliazione e di pace.
Venezia, 20 luglio 2020
Il Consiglio Direttivo AISB